Le politiche tariffarie di Donald Trump
Fin dall’elezione nel 2016, Donald Trump ha segnato un cambio di rotta significativo nelle politiche economiche e commerciali degli Stati Uniti. Già in campagna elettorale, Trump ha enfatizzato la necessità di proteggere l’industria manifatturiera americana, riportando il lavoro negli Stati Uniti attraverso l’uso di politiche tariffarie aggressive. Il suo approccio ha sollevato molte domande, non solo tra gli economisti ma anche tra le aziende che operano a livello globale.
In questo articolo, esploreremo le motivazioni, le implicazioni e i possibili effetti di queste politiche, cercando di capire se i benefici attesi superano davvero i costi.
Le tariffe: uno strumento di protezionismo
Donald Trump ha sostenuto per decenni la validità delle tariffe come mezzo per proteggere le industrie americane. Nella sua visione, i dazi sulle importazioni rappresentano un modo per riequilibrare le relazioni commerciali internazionali, incentivare la produzione interna e creare posti di lavoro negli Stati Uniti. Trump ha proposto una serie di tariffe ambiziose, inclusi dazi “universali” del 10-20% su quasi tutti i beni importati e tariffe specifiche fino al 60% per i prodotti provenienti dalla Cina. Ha inoltre ventilato l’idea di tariffe reciproche, ovvero applicare dazi sugli import americani equivalenti a quelli imposti da altri paesi sui prodotti statunitensi.
Queste proposte rappresentano un ritorno a un approccio protezionista, una strategia che non si vedeva dagli anni ’30. Tuttavia, i tempi sono cambiati e l’economia globale di oggi è molto più interconnessa. Mentre alcune industrie americane potrebbero effettivamente beneficiare di tariffe più alte, le conseguenze negative potrebbero superare i vantaggi, come dimostrano i casi di studio recenti.
L’impatto sull'industria manifatturiera
Le tariffe sono state pensate per incentivare la produzione interna, ma l’effetto è stato tutt’altro che uniforme. Molte industrie americane dipendono da componenti e materie prime importate, e l’aumento dei dazi ha comportato un incremento dei costi di produzione. Il settore dell’acciaio e dell’alluminio ne è un esempio lampante: mentre i dazi hanno effettivamente aumentato la produzione di metalli negli Stati Uniti, le industrie che utilizzano questi materiali — come quella automobilistica e degli elettrodomestici — hanno subito un aumento dei costi e una conseguente riduzione dell’output.
Ad esempio, USITC (United States International Trade Commission) ha stimato per il 2021, che i dazi sull’acciaio e sull’alluminio hanno portato a un incremento di 2,2 miliardi di dollari nella produzione interna di metalli, ma le aziende che li utilizzano hanno visto una contrazione della produzione di 3,5 miliardi di dollari nello stesso periodo: le tariffe possono creare vincitori e vinti all’interno dello stesso settore manifatturiero. Ecco la analisi più da vicino sul codice 301 dove noi europei siamo molto ingaggiati.
Impatto delle Tariffe Sezione 301 sui Settori Manifatturieri country US
L’analisi dell’impatto delle tariffe Sezione 301 sui settori manifatturieri USA, come illustrato nella tabella precedente porta lo stesso ente USITC ad alcune conclusioni:
- Le tariffe hanno generalmente portato ad una diminuzione delle importazioni dalla Cina e ad un aumento della produzione negli Stati Uniti. Questo risultato è in linea con l’obiettivo principale delle tariffe, ovvero proteggere l’industria nazionale dalla concorrenza estera.
- Tuttavia, la protezione dell’industria USA è avvenuta a costo di un aumento dei prezzi, sia per le importazioni dalla Cina che per la produzione nazionale. Questo aumento dei prezzi potrebbe essere dovuto a diversi fattori, tra cui la scarsità di alternative competitive alle importazioni cinesi e l’aumento della domanda per i prodotti USA.
- L’impatto delle tariffe varia significativamente da settore a settore. Alcuni settori, come quello dei semiconduttori, hanno registrato un forte aumento della produzione USA a fronte di un drastico calo delle importazioni dalla Cina. Altri settori, come quello informatico, hanno subito un impatto relativamente modesto.
- L’analisi evidenzia anche l’importanza di considerare l’impatto delle tariffe sulla catena di approvvigionamento. La diminuzione delle importazioni da un paese chiave come la Cina può creare difficoltà di approvvigionamento per le aziende USA, contribuendo all’aumento dei prezzi e rallentando la produzione.
Storia delle tariffe durante la presidenza Trump
Durante la presidenza di Donald Trump (2017-2021), gli Stati Uniti hanno implementato diverse barriere tariffarie sia nei confronti della Cina che dell’Unione Europea (UE). Ecco una sintesi delle principali misure adottate e delle loro implicazioni:
Barriere tariffarie verso la Cina:
2018: Gli Stati Uniti hanno imposto dazi su 250 miliardi di dollari di importazioni cinesi, con tariffe che variavano dal 10% al 25%. Queste misure miravano a contrastare pratiche commerciali ritenute sleali da parte della Cina, come il furto di proprietà intellettuale e il trasferimento forzato di tecnologia.
2019: Ulteriori dazi sono stati introdotti su altri 300 miliardi di dollari di beni cinesi, colpendo una vasta gamma di prodotti, dai beni di consumo all’elettronica. La Cina ha risposto con tariffe su 75 miliardi di dollari di merci statunitensi.
Barriere tariffarie verso l'Unione Europea:
2018: L’amministrazione Trump ha imposto dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio provenienti da vari paesi, inclusi quelli dell’UE. Queste misure erano giustificate per motivi di sicurezza nazionale.
2019: Gli Stati Uniti hanno introdotto dazi su 7,5 miliardi di dollari di prodotti europei, in risposta a una disputa sull’industria aeronautica. I prodotti colpiti includevano vino, formaggi e altri beni di consumo.
Impatto per country:
- Germania: Essendo un grande esportatore di automobili e macchinari, la Germania è stata particolarmente colpita dai dazi sull’acciaio e dall’eventuale minaccia di tariffe sulle auto.
- Francia: I dazi su vino e formaggi hanno avuto un impatto significativo sulle esportazioni francesi.
- Italia: Prodotti come formaggi e liquori italiani sono stati soggetti a tariffe aggiuntive, influenzando negativamente le esportazioni italiane verso gli Stati Uniti, unita ai dazi sull’acciaio.
La risposta delle aziende: riorganizzazione delle catene di fornitura
Di fronte alla minaccia di dazi elevati, molte aziende hanno iniziato a riorganizzare le proprie catene di approvvigionamento. Alcuni, come Rick Muskat, co-proprietario della Deer Stags, hanno scelto di accumulare scorte prima che i nuovi dazi entrassero in vigore. Altri hanno iniziato a spostare la produzione fuori dalla Cina, dirigendosi verso paesi come Vietnam, Messico e Brasile, nel tentativo di ridurre la loro esposizione ai dazi.
Tuttavia, questa strategia presenta numerosi ostacoli. Spostare la produzione da un paese all’altro comporta costi significativi, sia in termini di trasferimento di attrezzature che di gestione di una nuova catena di fornitura. Inoltre, non tutti i settori possono adattarsi facilmente. Per esempio, l’industria dell’elettronica, che dipende da componenti specializzati prodotti in Cina, troverebbe difficile e costoso replicare queste capacità produttive altrove.
I costi per i consumatori americani
Una delle domande più importanti riguardo all’uso delle tariffe è: chi paga realmente il prezzo? Dal punto di vista tecnico, il dazio è una tassa pagata dall’importatore, ovvero dall’azienda americana che introduce i prodotti stranieri nel mercato nazionale. Tuttavia, in pratica, questi costi vengono spesso trasferiti ai consumatori finali sotto forma di prezzi più alti.
Studi economici hanno dimostrato che durante il primo mandato di Trump, la maggior parte dei costi legati ai dazi imposti sui beni cinesi è stata trasferita direttamente ai consumatori americani. Ad esempio, il Peterson Institute for International Economics ha stimato che le tariffe di Trump potrebbero aumentare i costi annuali per una famiglia americana media di circa 2.600 dollari. Questo incremento non è banale, soprattutto se si considera che colpisce in modo sproporzionato le famiglie a basso reddito, che dedicano una parte più consistente del loro reddito ai beni di consumo.
L'Europa nell'ombra: perché l'Asia teme meno la nuova era Trump
Il Professor Francesco Mancini, ordinario di geopolitica all’università di Singapore – intervistato dal Sole 24 Ore – offre un’analisi lucida ed originale sull’impatto del secondo mandato di Donald Trump sullo scacchiere globale, e la sua diagnosi per l’Europa non è delle più rosee.
Secondo Mancini, il Vecchio Continente si troverà ad affrontare sfide ben più complesse rispetto all’Asia nell’era Trump. Ma cosa rende l’Europa così vulnerabile?
Innanzitutto, l’Europa è storicamente legata a doppio filo agli Stati Uniti, sia in termini di difesa e strategia che sul piano commerciale. Questa dipendenza, consolidata nel tempo, si trasforma in un punto debole quando l’America, guidata da un presidente definito “mercuriale” come Trump, non offre più la stabilità e la chiarezza di un tempo. L’Europa si trova così costretta a ripensare il suo ruolo, a cercare nuove strade per garantirsi autonomia strategica, commerciale e di sicurezza.
Ma c’è di più. L’America di Trump ha spostato il suo sguardo strategico verso il Pacifico, relegando l’Europa a un ruolo di secondo piano. Pur essendo un alleato, il Vecchio Continente viene visto come un partner a volte “riottoso”, incapace di stare al passo con le sfide globali. Questa perdita di centralità preoccupa, e non poco, perché rischia di indebolire l’Europa nel lungo periodo.
L’Asia, invece, sembra guardare al futuro con più serenità. Le sue economie, generalmente più robuste e dinamiche di quelle europee, sono pronte ad assorbire l’urto delle politiche protezionistiche di Trump. L’Economist prevede sì un calo del PIL asiatico dello 0,5% entro il 2028, ma il punto di partenza è solido, ben diverso dalla situazione europea. Inoltre, l’Asia può contare su una fitta rete di scambi commerciali interni alla regione, che possono essere intensificati per mitigare l’impatto dei dazi americani.
Ma non è solo una questione di numeri. L’Asia dimostra un pragmatismo che in Europa sembra mancare. Si adatta ai cambiamenti, ai nuovi leader, senza farsi travolgere dagli eventi. Un esempio? L’India di Modi, una sorta di “Trump indiano”, vede aprirsi nuove opportunità di collaborazione con gli Stati Uniti, rafforzando il suo ruolo di contraltare alla Cina.
Insomma, mentre l’Europa si interroga sul suo futuro nell’ombra di un’America imprevedibile, l’Asia si prepara a giocare la sua partita, con la consapevolezza di chi ha le carte in regola per vincere.
Questo articolo è stato redatto dall’ufficio italiano di Pangea Studio Associato.
Contatta un nostro consulente per non perdere nessuna informazione ed occasione!
Rimani aggiornato sugli scenari dei mercati esteri.